Il border Tanzaniano, sembra quasi un
gioiello. Gli uffici nuovi, con tanto di parcheggio e sassi dipinti
di bianco a segnare bene le dimensioni entro le quali i mezzi devono
sostare. Ci accoglie la solita aria di svacco ma con una certa voglia
di efficienza.
Un sacco di domande, curiosità più
che senso del dovere, scambio di battute e risate, saluti e si passa
il confine attraversando il fiume sul ponte.
Il confine Mozambicano, costruito nello
stesso momento di quello Tanzaniano, è però decisamente già
emblematico di quanto ci aspetterà da lì a momenti. La struttura
degli edifici assolutamente simile, ma il parcheggio non è segnato
per niente: al contrario macchie d'olio di veicoli affranti dalla
strada percorsa forse dal lato Mozambico (ancora non lo sappiamo ma
ora lo posso affermare con certezza), pietre e sassi sparsi. Gli
edifici hanno un'aria già decadente, e sono coperti dentro e fuori
da una fine polvere rossa. Nel cortile c'è giusto la bandiera che
garrula ancora sgargiante nei suoi colori e ricorda all'osservatore
che il ponte è stato inaugurato da due anni soltanto.
Gli uffici sono vuoti, gli ufficiali
vari addetti ai serivizi di dogana sono tutti giovani, dall'aria
spaurita, certamente al loro primo impiego.
L'ufficiale che segue le pratiche di
espatrio è un ragazzo forse poco meno che trentenne. E' seduto alla
sua scrivania in un ufficio completamente spoglio. Indossa un paio di
occhiali da leninista e nella sua divisa “nuova” ma già un pò
dall'aspetto sgualcito, fa tornare alla mente scene holliwoodiane di
questi strani posti di confine in questi strani Paesi in via di
sviluppo.
Di solito il poliziotto di confine, in
questi film è cattivo e crudele, ma nel nostro caso si tratta di un
giovanotto molto educato e fortemente sensibile al fatto che Ugo
debba assolutamente trovarsi un lavoro in Tanzania per stare insieme
a me, oppure che io al più presto me ne torni in Italia e trovi lì
lavoro per stare insieme ad Ugo. Lui, ci dice, ci mette cinque giorni
a tornare a casa a Maputo.